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Gerard Caris


@ Uli Bohnen 

RELAZIONI INTERDIMENSIONALI -  

RAGIONE E NATURA NELL’OPERA PLASTICA DI GERARD CARIS 

Gerard Caris è in grado di collegare i suoi elementi plastici basilari, e cioè pentagoni regolari (=bidimensionali) con pentagoni dodecaedri (= tridimensionali) fino a farli divenire strutture complesse. La naturalezza di tale creazione è in realtà ingannevole, in quanto chiunque provi a costruire un’opera di megadimensioni con l’intento di creare dei motivi armonici e servendosi di pentagoni regolari; si accorgerà immediatamente che essi, a differenza di esagoni regolari, si possono accostare fra loro soltanto a fatica. 

Per lungo tempo dall’opera di questo artista si sarebbe potuto dedurre che la sua dedizione a tali forme così tanto difficili da combinare, avesse un carattere molto artificiale, magari perfino “contro natura”, in quanto nella natura (incluso il mondo decisamente svariato dei cristalli), si erano sempre cercati, invano, quei fenomeni che avessero alla base dei pentagoni regolari. È anche vero che talvolta in natura spuntano dei pentagoni, per esempio con la pirite, però mai con la regolarità che ci è nota dai nidi d’ape (esagonali) o dai cristalli, che fanno riferimento ad altre forme base. 

Quando nel 1984, in una lega di alluminio / manganese raffreddata in breve tempo, furono osservati per la prima volta dei complessi derivanti da pentagoni regolari, si decise di definirli “quasi cristalli” a causa della loro estrazione d’origine sintetica creata da scienziati. A quasi nessuno verrebbe però in mente di considerare “contro natura” questo genere di prodotti o di tentativi che portano a tali risultati, a meno che si arrivi a giudicare la ricerca umana quale espressione principalmente inadeguata alla natura: la scoperta della pietra focaia vista come peccato… Allora qualsiasi storia di una cultura, ovvero di una civilizzazione, non sarebbe altro che un accumularsi di manifestazioni contro natura verificatesi in seguito alla nostra cacciata dal paradiso. 

Una volta arrivati a riconoscere che la ragione ci separa dalla natura e allo stesso tempo funge da mediatrice nel nostro rapporto con essa, allora anche il rapporto figurativo con elementi apparentemente innaturali come il pentagono non rappresenta più uno scherzo o una pretesa indipendente dalla realtà naturale.

Quanto sopra esposto vale non soltanto perché in tutte le nostre attività civilizzatrici e culturali noi siamo costretti ad occuparci della natura soltanto in forma di mediazione, ma se ci chiediamo in che termini la natura stessa possa avere “una componente legata alla ragione”, il rapporto figurativo con elementi come il pentagono acquista presumibilmente un senso molto più amplio, e nell’applicazione pratica esso assume un significato sorprendente. 

Perché il mondo delle forme al quale Gerard Caris è dedito da ormai quasi 40 anni, un mondo presentato prima in modo speculatorio sulla carta e poi rappresentato sfericamente, risulta essere forse così “difficile da trattare” perché la combinazione degli elementi plastici pentagonali si scontra con i limiti della nostra usuale comprensione dimensionale. 

Da quando la teoria sulla relatività di Einstein ci ha confrontati con il problema di dover considerare lo spazio e il tempo quale insieme continuo quadridimensionale, anche la nostra immaginazione popolare di superficie (bidimensionale) e spazio (tridimensionale) ha assunto un carattere profondamente dubbioso. Già il calcolo logaritmico, così come era stato sviluppato nel XVII secolo, la geometria non euclidea della linea curva sferica ideata da Friedrich Gauss nel XVIII secolo e il suo significativo proseguimento in fisica elaborato da Bernhard Riemann nel XIX secolo, sarebbero stati adatti per rivedere l’intero vocabolario quotidiano curato fino ad oggi, non di meno quello usato nei circoli artistici. Eppure ciò non avvenne quasi per nulla. 

È alquanto sorprendente che Robert Lebel abbia comunicato, rifacendosi ad un aforista abbastanza diretto come Marcel Duchamp, la seguente riflessione: “Un oggetto tridimensionale getta un’ombra solo da due dimensioni. Da ciò egli (quindi Duchamp), deduce che un oggetto tridimensionale dal suo canto dovrebbe essere l’ombra di un oggetto che sia quadridimensionale” 1. In tal modo è stato fatto il tentativo, sulla base di una sottile analogia, di avvicinarci a qualcosa di inimmaginabile (anche se concepibile!) attraverso qualcosa di immaginabile. 

Evidenziare questo forte accostamento di un artista a problemi delle scienze contemporanee, e quindi riferendosi al lavoro di Gerard Caris, è nondimeno giustificato in quanto il lavoro pluriennale dell’olandese con un elemento plastico così “ribelle” quale il pentagono regolare, si ritrova anche negli scienziati cristallografi, che lo rivestono però di un vocabolario che si distingue in termini professionali da quello di cui si occupa Caris. Perché da quando lo sguardo fu posto sulla lega di alluminio / manganese e quindi ci si meravigliò alla scoperta che la sua struttura cristallina è composta da pentagoni regolari, gli scienziati si tormentano con la domanda su come tale composizione possa fare i conti con la nostra comprensione di tridimensionalità, in quanto, così come appunto lo stesso Caris ha dovuto riconoscere, una combinazione sferica di questi elementi chiusa e senza buchi è incomprensibile e irrealizzabile in qualsiasi plastico. 

Fra le ipotesi teoriche finora formulate che spieghino l’insorgere dei „quasi cristalli“, risultano essere particolarmente interessanti quelle che accennano alla possibilità di passaggi scorrevoli fra le dimensioni a numero intero e che considerano il carattere “iperdimensionale” della nostra realtà. Cosa significa tutto questo? 

Se prima si era detto che l’estensione della matematica e della geometria sul modo di calcolare, ovvero di disegnare a partire dal XVII secolo è stata forzata ricorrendo a funzioni interdimensionali e più di tridimensionali e gli artisti, a parte poche eccezioni, sono rimasti ciò nonostante incatenati nella comprensione convenzionale di superficie e spazio, allora risulta palese una deplorevole distanza delle discipline creative da problematiche dalla cui comprensione più adeguata dipende probabilmente, in linea di principio, il rapporto dell’umanità con il suo ambiente naturale. E quanto proprio questo rapporto sia diventato importante, risulta evidente se consideriamo il malanno che, con la nostra comprensione della realtà e della tecnologia che ne sta alla base, incluse tutte le conseguenti manifestazioni, stiamo provocando globalmente. 

Non è forse concepibile, allora, il sospetto che i semplici modelli di costruzione e la violenza meccanica con la quale stiamo incontrando praticamente la natura (indipendentemente da quanto siano computerizzati ed elettronicizzati la ricerca, la produzione e l’impresa), siano soltanto la conseguenza di un fondamentale malinteso? Con il viaggio nello spazio si è imparato a tenere in considerazione, nel calcolo, gli spostamenti temporali dettati dalla velocità e quelli della meta da raggiungere; anche nella ricerca delle particelle si sa, ammesso che siano in gioco velocità estremamente alte, come comportarsi con la complessa relazione fra spazio e tempo, ovvero massa ed energia. Se ed in che modo questo sapere contenga la chiave per una comprensione adeguata del nostro mondo vitale quotidiano, dovrà tuttavia ancora definirsi, e forse completamente contro l’affermazione di Einstein, secondo la quale per la comprensione della realtà a noi accessibile basterebbe la visione del mondo di Newton. 

Sul filone di una riflessione di questo genere, si attribuisce probabilmente alle ipotesi insicure con le quali i cristallografi reagiscono alla struttura pentagonale della lega velocemente raffreddata alluminio / manganese, un significato decisamente amplio, rispetto a quanto la limitatezza del suo oggetto di ricerca faceva supporre a prima vista. Ciò vale però allo stesso modo per il lavoro creativo di Gerard Caris. 

Sia i suoi “complessi pentagonali“ grafici che quelli sculturali (così come egli stesso nomina queste creazioni), rappresentano funzioni di una procedura di riproduzione esponenziale, la quale si potrebbe tradurre in spirali logaritmiche, ovvero, per parlare in termini aritmetici, astrarre in numeri logaritmici. E ciò che vale per tali spirali, e cioè che simboleggiano a tutti gli effetti il passaggio scorrevole ed infinitamente differenziato fra dimensioni rappresentabili aritmeticamente, ciò vale in modo specifico, pertanto ancora più evidente, anche per il mondo delle forme plastiche di Gerard Caris. 

Ma come se non bastasse: quando l’artista utilizza il suo vocabolario delle forme al fine di costruirne oggetti d’uso quotidiano e si introduce quindi nell’ambito della creazione applicata, allora si palesano in essa aspetti di una modernità riscontrabile nelle varie epoche e che è consapevole della propria continuità. 

Per essere più precisi: nonostante la radicalità di alcuni dei più importanti rappresentanti dell’epoca moderna nel nostro secolo si sia manifestata proprio nel fatto che essi si sforzassero per estendere le loro esigenze metafisiche alla trasformazione della vita quotidiana, esigenze che derivavano in parte da un passato premoderno, in parte da questioni di scienze naturali e sociali riferite al loro tempo, e nonostante essi, in seguito a tale sforzo, volessero porre termine alla separazione fra arte libera e applicata, fino ad oggi si è ostinatamente affermata l’opinione popolare che arte e quotidianità siano due ambiti che non possono comunicare, laddove il rispettivo apprezzamento dell’arte libera o applicata è decisamente differente. Nei confronti di un tale persistente antimodernismo Caris resta fedele alle posizioni moderne. 

Ricordiamoci che quando i creatori dell’epoca moderna si rifacevano a forme molto antiche dell’essere e del pensiero, ciò non accadeva necessariamente con l’intenzione di creare una nuova base alle perdute capacità intuitive, perché spesso si trattava di manifestazioni di una razionalità di diverso orientamento, alla quale ci si doveva collegare. La vocazione di molti creatori moderni non fu invece applicata alle teorie delle scienze naturali della loro epoca, ciò non solo perché si cercava in esse un appoggio razionale, ma anche perché soprattutto i fisici vissero a quei tempi l’avventura che tali entità profonde come spazio, tempo, massa e energia proprio nella stretta osservanza di razionali progetti di analisi scomparivano sorprendentemente dalla sfera della capacità d’immaginazione umana.

Ne derivò quindi una situazione apparentemente paradossale: filosofi come Nikolaus Cusanus (1401-1464) o Baruch Spinoza (1632-1677) che avevano radicalizzato il pensiero matematico del loro tempo rispettivamente con l’intenzione di provare l’esistenza di Dio, e che a partire da Leibniz erano stati usati ad esempio per la creazione del calcolo infinitesimale, ovvero (nel caso di Spinoza) per l’intero costrutto del crescente Illuminismo lontano da Dio, furono la miccia che nel XX secolo alimentò nuovamente bisogni trascendentali. 

Senza ovviamente voler rivitalizzare la fede in Dio, un artista come Georges Vantongerloo (1886-1965)2 cercò, con evidente riferimento a Spinoza, di restituire alla precisione del pensiero matematico e fisico le sue implicazioni metafisiche sviluppando, sia nella creazione libera che in quella applicata, dei simboli plastici. Con quest’impulso si spiegano le prime pitture e sculture prive di oggetti di Vantongerloo, ma anche arredamenti per uffici e progetti architettonici, fra i quali già nel 1928 un plastico rappresentante un aeroporto! 

Dopo la prima Guerra Mondiale, le inquietudini sociali rivoluzionarie in Europa volevano ovviamente nutrire ancora la speranza di una prossima realizzabilità della sintesi fra creazione libera e applicata, speranza che si ricollegava al pensiero di una generale abrogazione della divisione del lavoro nella società. Oggi ne è rimasto soltanto un piccolo ricordo conservato nell’edizione tascabile della storia; ci si ricorda inoltre dell’intenzione di qualche artista di produrre con mezzi figurativi dei cambiamenti sovversivi di modelli percettivi non riflettuti. 

Tenuto presente quanto precedentemente affermato sulle particolarità dimensionali fra le quali eccellono i “complessi pentagonali” di Gerard Caris, si deve ammettere che il tentativo di trasferirle in oggetti d’uso quotidiano potrebbe provocare irritazioni percettive, le cui conseguenze non si possono ancora per nulla valutare. 

Anche se la „santificazione della superficie“ metafisica di Mondrian non ha distolto nessun architetto che gli si rifece dal perpetuare di fatto la discutibile differenziazione fra superficie “bidimensionale a numero intero” e spazio “tridimensionale a numero intero”, con l’esempio dei paradossi spazio-temporali degli anni successivi (ad esempio nella Op Art di M.C.Escher), si manifestano più palesemente quei problemi che Mondrian aveva posto e la cui complessità dimensionale è simboleggiata in modo cruciale nell’opera di Gerard Caris. 

L’olandese del sud Caris conosce perfettamente l’opera di Mondrian, Vantongerloo e Escher3. Però il suo costante lavoro con il pentagono regolare che non si lascia inserire né nelle riproduzioni della superficie, né in quelle dello spazio, senza che si producano spazi o superfici intermedie di tutt’altra forma, non si riporta soltanto alle tradizioni dell’Olanda e delle Fiandre, 4 in quanto Caris ha ottenuto la propria istruzione artistica, così come si può vedere nella sua biografia informativa presente nei suoi cataloghi, negli Stati Uniti. Anche se nei corsi da lui frequentati c’era anche con David Hockney un britannico, gli altri insegnanti di Caris, fra i quali Richard Diebenkorn e soprattutto R B Kitaj (con il quale Caris è sempre in contatto), erano, o meglio sono originari americani ed anche il loro approccio con le relazioni fra spazio e superficie ha contribuito in modo determinante, a parte tutte le differenze esteriori nella creatività, all’immagine plastica di Gerard Caris. 

Nei costruttivi e allo stesso tempo sensibili "Seascapes" di Diebenkorn il problema della profondità dello spazio, dello sferico, non si rappresenta più, quindi, come qualcosa di unicamente oggettivo, bensì quale sintesi filtrata, in seguito a processi soggettivi di percezione, con l’atmosferico. Nutriti da varie fonti sensoriali e di pensiero, i quadri quindi “montati” di Kitaj evidenziano persino in modo ovvio, che agli elementi eterogenei (“vedute” con il doppio senso) si affiancano anche prospettive eterogenee. E nelle interdipendenze ricche di colore di Hockney, che vengono contrapposte a superfici appositamente ribaltate (fra le quali ce ne sono a volte di decorativamente impressionanti), si manifesta la convinzione dell’artista che la rivolta cubista contro la percezione dello spazio in prospettiva centrale sia ancora molto lontana dallo scoprire o dall’inventare 5 tutte le alternative immaginabili e forse persino indispensabili. 

Questa è l’eredità che Caris però non spreca per nessuna ragione, anzi: egli sceglie accuratamente che cosa gli è utile per simboleggiare possibili rapporti comunicativi fra ragione e natura, ricorrendo all’esempio di un vocabolario plastico che è stato ridotto per ottemperanza. È da sempre scritto nel destino antropologico che questa comunicazione non può essere priva di conflitti e il problema che hanno sia Caris che i cristallografi nello spiegare la “ribellione dimensionale” del pentagono regolare, in questo insieme produce addirittura un effetto allegorico. Perché i tentativi degli uomini, tentativi di un’esplosiva e forzata maggioranza, di sradicarsi dal proprio rapporto con la natura, pare stiano a dimostrare che la Storia della Natura sta ricoprendo la funzione di Storia dell’Umanità, fino a quando quest’ultima, l’Umanità, troverà la sua fine proprio in tale meccanismo di sradicamento. 

Alla luce di queste prospettive, fra le inutili alternative, e cioè il violento aumento graduale delle esigenze umane nei confronti della natura oppure l’ingenua illusione di immediata unità con essa, è persuasivo riconoscere l’idea della ragione quale natura mediata, e l’idea della natura quale ragione mediata. 

Il lavoro di Gerard Caris esibisce una testimonianza esemplare degli sforzi che sono legati a tale processo ma ci prospetta anche l’anelito di cognizione ad esso connesso.


 

1 Tale indicazione di trova in: Marcel Duchamp - Readymade. 180 Aussprüche aus Interviews mit Marcel Duchamp (180 Massime da interviste con Marcel Duchamp), a cura di Serge Stauffer. Zurigo 1973, Pag. 11

2 A tal proposito si veda anche: Angela Thomas, „denkbilder. materialien zur entwicklung von georges vantongerloo“ (Immagini pensate. Materiali per l’evoluzione di Georges Vantongerloo). Düsseldorf 1987

3 La lettura dei libri commentati dallo stesso Caris su artisti le cui opinioni sulla dimensione sono per lui d’interesse, è estremamente interessante; ad es. la pubblicazione citata nella nota n° 2, oppure il capitolo su M.C. Escher in: J.L.Locher, Vormgeving en structuur. Amsterdam 1973

4 Si veda a tal proposito: Catalogo della mostra "Gerard Caris". Kunsthalle Bremen 1993, in particolare pag. 15.

5 Anche per questo riassunto delle intenzioni di Hockney ci è stato d’aiuto un appunto di van Gerard Caris: Art & Design Vol.4, No. l/2, London 1968 - su David Hockney. Quando egli critica in questo testo la prospettiva centrale (scoperta in Italia) quale parametro dell’arte europea degli ultimi 300 anni, è ovvio che ignora che, soprattutto partendo dalle Fiandre, contemporaneamente venivano sviluppate in Europa anche tradizioni completamente diverse della rappresentazione dello spazio. Si veda a tal proposito: Erwin Panofsky, Die Perspektive als "symbolische Form" (La prospettiva quale "forma simbolica") In: Ders., Aufsätze zu Grundfragen der Kunstwissenschaft. (Articoli su questioni base della scienza artistica) Berlin 1985, pag. 99.


 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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